Sant’ Agata

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SANT’AGATA

La Sicilia al tempo di Agata

Negli anni in cui visse Agata, a metà del III secolo, l’impero romano aveva già raggiunto la massima estensione territoriale. I suoi confini andavano dalla Penisola iberica alla Mesopotamia, dalla Britannia all’Egitto, abbracciando popoli, lingue, religioni e costumi molto diversi tra loro. Il governo centrale si era preoccupato di dare uniformità alle terre conquistate imponendo a tutti la lingua latina, le leggi di Roma e la propria religione, ma non era m grado di amministrarle e di controllarle direttamente. Per questo aveva affidato ogni provincia a un proconsole o a un governatore, funzionari che godevano sia deipoteri civili che di quelli militari: imponevano e riscuotevano le imposte. amministravano la giustizia, comandavano l’esercito.

Ai tempi dell’imperatore Decio, Catania era una città ricca e fiorente,che per di più godeva di un’ottima posizione geografica. Il suo grande porto, nel cuore del Mediterraneo, rappresentava uno dei più vivaci punti di scambio commerciale e culturale dell’epoca. Le fonti storiche narrano che era amministrata dal proconsole Quinziano, uomo rude, prepotente e superbo. Con moglie e famiglia, una corte numerosa, le guardie imperiali e una schiera di servi, alloggiava nel ricco palazzo pretorio, un enorme complesso di edifici con annesse aule giudiziarie e carceri, in cui si svolgevano tutte le attività pubbliche della città.

Le persecuzioni

Sin dal 264 a.C., anno in cui con la prima guerra punica Roma sottrasse l’isola ai Cartaginesi, in Sicilia era stata imposta la religione pagana dei Romani, col suo carico di divinità popolane e goderecce, esempi di corruzione e di dissolutezza nei costumi.

Quando la comunità cristiana iniziò a essere abbastanza ampia, intorno al 40 d.C., si abbatterono su di essa le prime persecuzioni. Inizialmente con Nerone, a metà del primo secolo, ebbero carattere soltanto occasionale.

Poi, nel corso del II secolo, fu data loro una base giuridica mediante una legge che vietava il culto cristiano. Di questi primi secoli la Chiesa ricorda numerosi martiri che, con il loro coraggio e la determinazione nell’accettare la morte per Cristo, contribuirono ad accelerare la diffusione del cristianesimo.

All’inizio del III secolo, l’imperatore Settimio Severo emanò un editto di persecuzione. Egli stabilì che i cristiani dovessero essere prima denunciati alle autorità e poi invitati a rinnegare pubblicamente la loro fede. Se accettavano di tornare alla religione pagana avevano diritto al libellurn, una sorta di certificato di conformità religiosa, ma se si rifiutavano di sacrificare agli dei, venivano prima torturati e poi uccisi. Con questo sistema, freddo e calcolatore, l’imperatore cercava di fare apostati, cioè persone che abbandonavano la fede cristiana, e non martiri, che erano considerati più pericolosi dei cristiani vivi. Poi, di fronte al diffondersi del cristianesimo e temendo che l’aumento dei fedeli potesse minacciare la stabilità dell’impero, nel 249 l’imperatore Decio ordinò una repressione ancora più radicale: tutti i cristiani, denunciati o no, erano ricercati d’ufficio, rintracciati, torturati e infine uccisi.

Agata “La Buona”

In quegli anni, a metà del III secolo, a Catania nasceva Agata. La data non è mai stata storicamente accertata con esattezza, ma fu calcolata a ritroso partendo da un’altra che invece egrave; certa, cioè il martirio avvenuto nel 251. La tradizione popolare e gli antichi atti vogliono che Agata, al momento del martirio, fosse poco più che adolescente. Per questo motivo si fa risalire la sua nascita intorno all’anno 235. Una voce aggiunge anche il giorno: l’8 settembre, facendolo coincidere con una delle date più importanti del culto mariano, quella della nascita della Madonna. La sua era una famiglia nobile e ricca. Possedeva case e terreni coltivati, in città e in provincia. Il padre Rao e la madre Apolla decisero di chiamarla Agata, che in greco significa “la buona”. In questo nome c’era già racchiuso il suo destino: bontà e purezza furono, infatti, le doti che distinsero Agata sin dalla prima infanzia. La tradizione popolare identifica nei ruderi di una villa romana, al centro della città, la casa natale di Agata. In questo luogo in seguito è stato posto un piccolo altare che, in ogni periodo dell’anno, è tanto ricco di fiori da sembrare un giardino a primavera. Dei suoi primi anni di vita non ci sono giunte testimonianze documentate, ma si può supporre che sin dalla più tenera età Agata abbia ricevuto dai genitori una buona educazione e che dal loro esempio abbia appreso il valore delle virtù cristiane: la preghiera, la rinuncia alle ricchezze terrene, il coraggio nello scegliere Cristo. Agata trascorreva le giornate della sua adolescenza in un sereno ambiente familiare. Era obbediente ai genitori, che amava profondamente, ma più di ogni cosa amava Dio. Fuggiva il lusso e la vita mondana, che invece erano al centro degli interessi delle coetanee di pari grado sociale. Cresceva in santità: metteva tutto il suo impegno nelle semplici cose di ogni giorno per imitare e testimoniare Gesù. E fu questo allenamento quotidiano alla rinuncia e al sacrificio che le permise di prepararsi ad affrontare la grande prova del martirio. Ma Agata cresceva anche in bellezza: il suo corpo era slanciato, i lineamenti delicati, le labbra rosee, i capelli biondi. La voce del popolo l’ha descritta per secoli così, e in questo modo l’arte sacra l’ha sempre raffigurata. Qualcuno ha pensato di trovare una conferma, sia dell’altezza che del colore dei capelli, nelle ricognizioni fatte periodicamente sulle reliquie della santa. Come un bocciolo di rosa, la sua bellezza era nella grazia delle forme e nel pudore che le rivestiva. Bellezza, candore e purezza verginale facevano di Agata una creatura davvero angelica.

La consacrazione a Dio

Molto presto, già negli anni dell’infanzia, Agata ebbe chiaro nel cuore il desiderio di donarsi totalmente a Cristo.

Per lo Sposo celeste provava un sentimento semplice e spontaneo, ma anche così forte che era impaziente di pronunciare il voto di verginità. Nel segreto dell’animo si era già promessa a Dio e, quando non aveva ancora compiuto 15 anni, sentì che era giunto il momento di consacrarsi solennemente. Il vescovo di Catania accolse la sua richiesta e, durante una cerimonia ufficiale chiamata velatio, le impose il flammeum, il velo color rosso fiamma che portavano le vergini consacrate. Agata da quel giorno divenne sposa di Cristo. Aveva atteso con ansia e trepidazione quel momento e aveva pregato tanto Dio di poter offrire a lui il suo cuore puro. Così, dopo tanta attesa, la consacrazione la rese profondamente felice, consentendole di vivere in preghiera e meditazione.

La fuga e l’arresto

Un giorno, il proconsole Quinziano fu informato che in città, tra le vergini consacrate, viveva una nobile e bella fanciulla. Decise allora che doveva conoscerla. Ordinò ai suoi uomini che la catturassero e la conducessero al palazzo pretorio: si trattava proprio di Agata. L’accusa formale, in forza dell’editto di persecuzione dell’imperatore Decio, era quella di vilipendio della religione di Stato, un’accusa riservata a tutti i cristiani che non volevano abiurare. In realtà l’ordine del proconsole nasceva anche dal desiderio di soddisfare un capriccio e un interesse personale: piegare a sè una giovane bella e illibata e confiscarle i beni di famiglia. Per sottrarsi all’ordine del proconsole, Agata per qualche tempo rimase nascosta lontano da Catania. Su questo punto storia e leggenda sono fortemente intrecciate: più città si contendono il merito di aver dato asilo alla vergine esule.

Tra le ipotesi più accreditate, la più probabile è quella secondo cui Agata si rifugiò a Galermo, una contrada poco distante da Catania, dove i genitori possedevano case e terreni. Secondo un’altra tradizione, che nasce con buona probabilità da un errore di trascrizione degli antichi atti del martirio, Agata si sarebbe rifugiata, invece che a Galermo, a Palermo. Un’ultima e poco attendibile ipotesi, questa di tradizione non italiana, sostiene che Agata si sarebbe nascosta in una grotta nell’isola di Malta. Nei secoli, il popolo ha arricchito di avventure leggendarie la fuga e l’arresto di Agata. Una di queste narra che ella, inseguita dagli uomini di Quinziano e giunta ormai nei pressi del palazzo pretorio, si fosse fermata a riposare un istante. Nello stesso momento in cui si fermò, si dice per allacciarsi un calzare, un ulivo comparve dal nulla e la giovinetta potè ripararsi e anche cibarsi dei suoi frutti.

Ancora oggi, per rinnovare il ricordo di quell’evento prodigioso, è consuetudine coltivare un albero di ulivo in un’aiuola vicino ai luoghi del martirio.

Un’altra tradizione popolare legata a questa leggenda vuole che, il giorno della festa di sant’Agata, vengano consumati dolcetti di pasta reale, di colore verde e ricoperti di zucchero, che nella forma ricordano le olive, chiamati appunto “olivette di sant’Agata”.

Tornando alla storia, Agata rimase in esilio soltanto per poco tempo. Gli apparitores, gli sgherri al servizio del proconsole, la raggiunsero con quella facilità che è propria dei potenti e la condussero in tribunale al cospetto di Quinziano.

In casa di Afrodisia

Quinziano, non appena la vide, fu rapito dalla sua bellezza. Un ardore passionale lo invase, ma i suoi tentativi di seduzione furono tutti vani, perchè Agata lo respinse sempre con grande fermezza. Il proconsole pensò allora che un programma di rieducazione avrebbe potuto trasformare la giovane e l’avrebbe convinta a rinunciare ai voti e a cedere alle sue lusinghe. La affidò così per un mese a una cortigiana, una matrona dissoluta, maestra di vizi e di corruzione, che era conosciuta col nome di Afrodisia. La donna viveva in casa con le sue figlie, nove secondo la tradizione, diaboliche e licenziose almeno quanto lei. Fu il mese più duro e terribile per la giovane Agata. La sua purezza era costretta a subire continui insulti, cattivi esempi e inviti immorali. Per farle dimenticare Gesù, Afrodisia la tentò con ogni mezzo: banchetti, festini, divertimenti di ogni genere, le promise gioielli, ricchezze e schiavi. Ma Agata disprezzava ognuno di questi doni. Quando lo strumento della persuasione si rivelò incapace a piegare la sua ferrea volontà, Afrodisia e le figlie tentarono di raggiungere lo stesso vile scopo attraverso le minacce. “Quinziano ti farà uccidere”, le intimavano. Ma la vergine incorruttibile respingeva ogni proposta, si mostrava insensibile a ogni minaccia, opponeva rifiuti secchi usando parole di fuoco: < Vane sono le vostre promesse, stolte le parole, impotenti te minacce. Sappiate che il mio cuore è fermo come una pietra in Cristo e non cederà mai. La giovane Agata fu sempre fedele al suo unico Sposo; a lui offriva le sofferenze che pativa per la fede e giorno dopo giorno la sua anima ne risultava sempre più temprata. Allo scadere del mese e di fronte alla fermezza di Agata, Afrodisia non potè far altro che arrendersi. Sconfitta e umiliata, riconsegnò la giovane a Quinziano: “Ha la testa più dura della lava dell’Etna, non fa altro che piangere e pregare il suo invisibile Sposo. Sperare da lei un minimo segno d’affetto è soltanto tempo perso”.

Il processo

Quinziano prese atto che lusinghe, promesse e minacce non sortivano alcun effetto su quella giovane tanto bella quanto innamorata di Gesù. Decise allora di dare immediato avvio a un processo, contando così di piegarla con la forza. Convocata al palazzo pretorio, Agata entro fiera e umile. Procedeva a passi sicuri verso il suo persecutore e, quando i suoi occhi limpidi incontrarono quelli di Quinziano, li trovarono accesi di rabbia e di desiderio di rivalsa. Agata non era spaventata, sapeva che Io Spirito Santo l’avrebbe assistita e le avrebbe suggerito le parole da dire al tiranno. Ne era certa, perchè Gesù stesso lo aveva promesso ai suoi discepoli. Si presentò al proconsole vestita come una schiava, come usavano le vergini consacrate a Dio, e Quinziano volle giocare su questo equivoco per provocarla. “Non sono una schiava, ma una serva del Re del cielo”, chiarì subito Agata. “Sono nata libera da una famiglia nobile, ma la mia maggiore nobiltà deriva dall’essere ancella di Gesù Cristo”. Le affermazioni di Agata erano taglienti e fiere, degne della semplicità di una vergine e della fermezza di ma martire. “Tu che ti credi nobile”, disse Agata a Quinnano, “sei in realtà schiavo delle tue passioni”. Questa fu una grave provocazione per lui, padrone di quella terra e garante della religione pagana in Sicilia. “Dunque, noi che disprezziamo il nome e la servitù di Cristo”, domandò irritato il proconsole, “siamo ignobili?”. Per Agata, che parlava con la forza della fede e illuminata dallo Spirito Santo, era arrivato il momento di accettare la sfida e rilanciò: “Ignobiltà grande è la vostra: voi siete schiavi delle voluttà, adorate pietre e legni, idoli costruiti da miseri artigiani, strumenti del demonio”. Quinziano a quelle parole si sentì come un toro ferito. Era incapace di controbattere, non possedeva nè le risorse culturali di un oratore, nè la saggezza e la semplicità delle risposte ispirate dalla fede che aveva Agata. Gli unici strumenti che conosceva bene e che sapeva usare erano la violenza e le minacce. In questo campo era sicuro di essere il più forte e questi mezzi utilizzò: “O sacrifichi agli dèi o subirai il martirio”, minacciò spazientito. Ma, di fronte alla minaccia delle torture, Agata non si lasciò intimorire: “Vuoi farmi soffrire?”, lo irrise. “Da tempo lo aspetto, lo bramo, è la mia più grande gioia”. Poi, con voce sicura, aggiunse: “Non adorerò mai le tue divinità. Come potrei adorare una Venere impudica, un Giove adultero o un Mercurio ladro? Ma se tu credi che queste siano vere divinità, ti auguro che tua moglie abbia gli stessi costumi di Venere”. Queste parole, pesanti come macigni e affilate come lame, per Quinziano furono dure sferzate al suo orgoglio. Seppe reagire soltanto con la violenza e ricambiò con uno schiaffo l’umiliazione appena subita. Per niente avvilita per la percossa, Agata gli rispose: “Ti ritieni offeso perchè ti auguro di assomigliare ai tuoi dèi? Vedi allora che nemmeno tu li stimi? Perchè pretendi che siano onorati e punisci chi non vuole adorarli?”. Erano parole inconfutabili, ma Quinziano non volle arrendersi e ordinò che la giovane fosse rinchiusa in carcere

Il carcere e le torture

Per un giorno e una notte Agata rimase chiusa in una cella del carcere, all’interno del palazzo pretorio: diventata in seguito un luogo di culto, era una cameretta interrata, buia e umida. Il soffitto era alto e soltanto una finestrella irraggiungibile lasciava filtrare un raggio di luce attraverso una spessa grata di ferro. Non le fu dato nè cibo, nè acqua e una pesante catena le stringeva le caviglie. Ma la giovane Agata non disperò mai e continuò a pregare ancora più intensamente lo Sposo celeste. La mattina successiva fu condotta per la seconda volta davanti al proconsole. “Che pensi di fare per la tua salvezza?”, le domandò Quinziano. “La mia salvezza è Cristo”, rispose decisa Agata. Soltanto a quel punto Quinziano si rese conto che qualunque tentativo di persuasione era destinato al fallimento e, con uno scatto d’ira, ordinò di sottoporla a orrende torture.

Ad Agata furono stirate le membra, fu percossa con le verghe, lacerata col pettine di ferro, le furono squarciati i fianchi con lamine arroventate. Ogni tormento, invece di spezzarle la resistenza, sembrava darle nuovo vigore. Allora Quinziano si accanì ulteriormente contro la giovinetta e ordinò agli aguzzini che le amputassero le mammelle. “Non ti vergogni, gli disse Agata, “di stroncare in una donna le sorgenti della vita dalle quali tu stesso traesti alimento, succhiando al seno di tua madre?”.

L’ordine di Quinziano era un gesto di rabbia e di vendetta: ciò che non aveva potuto ottenere, ora voleva distruggere. Voleva vederla soffrire per il dolore del martirio e per il pudore violato. Voleva umiliarla nella sua dignità di donna, ma nessun segno di turbamento segnò il volto nè le parole di Agata: “Tu strazi il mio corpo”, disse, “ma la mia anima rimane intatta”.

La tavola dell’Angelo

I cristiani che avevano assistito al martirio e alla morte di Agata raccolsero con devozione il suo corpo e lo cosparsero di aromi e di oli profumati, come era in uso a quell’epoca. Poi con grande venerazione lo deposero in un sarcofago di pietra, che da allora fino ai nostri giorni è stato sempre oggetto di culto a Catania. Le fonti narrano che, quando il sepolcro ormai stava per essere chiuso, si avvicinò un fanciullo, vestito di seta bianca e seguito da altri cento giovanetti. Presso il capo della vergine depose una tavoletta di marmo, che oggi è una preziosa reliquia custodita nella chiesa di Sant’Agata a Cremona, con l’iscrizione latina “M. S. S. H. D. E. P. L.”, che in italiano significa “Mente santa e spontanea, onore a Dio e liberazione della patria”. Questa iscrizione, detta anche “elogio dell’angelo”, è la sintesi delle caratteristiche della santa catanese ed è anche una solenne promessa di protezione alla città.

Lucia, pellegrina speciale

Tra i devoti che ogni giorno visitavano il luogo in cui era sepolta Sant’Agata, una volta giunse anche una pellegrina speciale. Erano passati circa cinquant’anni dal martirio, quando dalla vicina città di Siracusa giunse la giovane Lucia che accompagnava la madre Eutichia, gravemente ammalata. Lucia, inginocchiata sulla tomba della vergine e martire catanese, pregò con fervore per la guarigione della madre. Fu allora che sant’Agata le apparve: “Sorella mia Lucia”, le disse, “perchè chiedi a me ciò che tu stessa puoi porgere a tua madre?”. E poi aggiunse: “Anche tu, proprio come me, subirai il martirio per la tua fede in Cristo”. Lucia ritornò a Siracusa col cuore pieno di gioia e di speranza. La madre guarì e la profezia del suo martirio si avverò un anno dopo: santa Lucia è stata infatti martirizzata il 13 dicembre del 303, durante le persecuzioni di Diocleziano.

L’Iconografia

Sant’Agata è presente nella tradizione artistica catanese e nella considerazione popolare nelle vesti di santa bambina (“Santuzza”, come la chiamano con affetto i catanesi), mite e delicata, ma al tempo stesso è vista come santa potente, fiera e temibile. Il Busto, il veneratissimo reliquiario d’argento e smalto, offre un’immagine dolce della santa, con un sorriso placido. Ma lo stemma della città, scolpito nella pietra lavica dell’Etna, raffigura Agata con lo sguardo fiero e con la spada sguainata e pronta a difendere quanti a lei si affidano; è un’immagine che incute timore. E infatti Agata è la giovinetta delicata e pudica che subì le torture per amore di Cristo, che liberò la sua terra dalla corruzione dei costumi, restituendo il senso del pudore che la religione pagana aveva indebolito. Ma fu anche capace di giurare protezione e di salvare Catania dalla lava, dai pirati, dai nemici e dalle epidemie. Le immagini di sant’Agata, centinaia diffuse in tutto il mondo, rappresentano la santa con i simboli e gli elementi del martirio: giglio della purezza, palma del martirio, tenaglie, seno reciso. La più antica raffigurazione iconografica di sant’Agata è un mosaico nella chiesa di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna. Risale alla metà del VI secolo e la rappresenta in piedi, vestita dell’abito ufficiale delle diaconesse, una lunga tunica verde.

Le reliquie

Il triste distacco

Nel 1040, dopo due secoli di dominazione araba, i Bizantini comandati dal generale Giorgio Maniace tentarono di riconquistare la Sicilia. La loro vittoria fu soltanto temporanea, anche perchè Stefano, il responsabile della flotta bizantina, commise il grave errore di farsi sfuggire il più importante prigioniero di guerra, il capo militare arabo Abd Allah. Per questa ragione il generale Maniace inflisse a Stefano una severa punizione, ignaro che l’ammiraglio fosse un membro della casa imperiale di Costantinopoli. Per sanare l’incidente diplomatico e recuperare la stima dei sovrani che gli avevano già ordinato il rientro in patria, Giorgio Maniace decise di donare alla casa regnante le preziose reliquie della catanese sant’Agata e della siracusana santa Lucia, già conosciute e venerate in tutto il Mediterraneo. La tradizione racconta che un fortunale impedì la partenza della nave per tre giorni, quasi che sant’Agata non volesse staccarsi dalla città nella quale era nata e aveva subito il martirio. Alla fine i catanesi, addolorati e inermi di fronte alla decisione del conquistatore, videro allontanarsi a bordo di una nave bizantina le preziose reliquie della loro patrona. Una fontanella con un’effigie di sant’Agata che guarda a oriente, posta di fronte alla marina, ricorda il punto dal quale i catanesi in lacrime assistettero impotenti a questo furto.

Il ritorno in patria

Dovettero passare 86 anni prima che le reliquie di sant’Agata tornassero in patria. Si dice che fosse stata la stessa santa a volerlo, richiedendolo espressamente a due militari a lei devoti, il provenzale Gisliberto e il pugliese Goselmo. Più volte la santa apparve loro in sogno, finchè una notte i due decisero di sottrarre le sacre spoglie dalla chiesa di Costantinopoli dove erano venerate. Per sfuggire più facilmente ai controlli dovettero sezionare il corpo della santa in cinque parti, per poi nasconderle dentro le faretre in cui normalmente si riponevano le frecce. Si narra che poi le avessero ricoperte con petali di rosa profumati. I due militari presero una nave e si diressero in Sicilia, ma prima si fermarono in Puglia, regione in cui era nato Goselmo, e per suo desiderio vi lasciarono una preziosa reliquia, una mammella, ancora oggi venerata nella chiesa di Santa Caterina d’Alessandria d’Egitto, a Galatina (Lecce). Quando giunsero a Messina, i due soldati avvertirono il vescovo di Catania, Maurizio, che le reliquie di sant’Agata erano finalmente giunte vicino alla città. li vescovo, che in quei giorni si trovava nella residenza estiva ad Acicastello, fu enormemente felice, ma per prudenza, prima di diffondere la notizia in città, volle accertarsi che i due dicessero la verità e che quelle che avevano trasportato fossero realmente le spoglie della santa. Inviò a Messina due monaci fidatissimi, Oldmanno e Luca, per il riconoscimento: le reliquie furono confrontate con i referti che erano stati redatti durante le ultime ricognizioni. Soltanto dopo la conferma dei monaci, il vescovo Maurizio diede la notizia ai catanesi. Era il 17 agosto 1126. Il popolo, svegliato durante la notte da uno scampanio a festa, non perse tempo a cambiarsi d’abito e si riversò in strada così come si trovava, anche a piedi nudi e in camicia da notte, per accogliere prima possibile le reliquie finalmente recuperate. Lo storico incontro dei catanesi con le spoglie di sant’Agata avvenne nel quartiere di Ognina, dove in seguito fu eretta una chiesa che nel 1381 la lava circondo senza distruggere, ma che più recentemente fu abbandonata e infine lasciata andare in rovina. A con ferma dell’eccezionalità di quell’evento del 1126, i documenti storici registrano un miracolo, compiuto quella stessa notte. Una donna, cieca e paralitica dalla nascita, riacquistò vista e uso delle gambe nell’atto di prostrarsi davanti al sacro tesoro. I catanesi furono così riconoscenti ai due soldati che li elessero cittadini onorari e li vollero eterni custodi delle reliquie della santa: le toro spoglie riposano in cattedrale, in una parete della cappella della Madonna, accanto a quella di sant’Agata, anche se il punto esatto non è indicato.

Il Busto

Dal 1376 la testa e il torace di sant’Agata sono custoditi in un prezioso reliquiario d’argento lavorato finemente a sbalzo e decorato con ceselli e smalto. Ha l’aspetto di una statua a mezzo busto, con l’incarnato del volto in fine smalto e il biondo dei capelli in oro, in realtà, però, è un raffinato forziere, cavo all’interno, in cui sono custodite le reliquie della testa, del costato e di alcuni organi interni. L’allora vescovo di Catania, un benedettino francese oriundo di Limoges, l’aveva commissionato in Francia, nel 1373, all’orafo senese Giovanni Di Bartolo. La devozione dei fedeli arricchisce continuamente di gioielli, ori e pietre preziose la finissima rete che ricopre il Busto. Tra gli oltre 250 pezzi che a più strati ricoprono il reliquiario, alcuni sono doni di particolare valore. La corona, un gioiello di 1370 grammi tempestato di pietre preziose, fu, secondo una tradizione non confermata, un dono di Riccardo I d’inghilterra detto “Cuor di Leone”, che giunse in Sicilia nel 1190, durante una crociata. La regina Margherita di Savoia, nel 1881, offrì un prezioso anello, mentre il vicerè Ferdinando Acugna una massiccia collana quattrocentesca. Vincenzo Bellini donò alla patrona della sua città un riconoscimento che era stato dato a lui: la croce di cavaliere della Legion d’Onore. Anche papi, vescovi e cardinali negli anni hanno arricchito il tesoro di sant’Agata di collane e croci pettorali, oggetti preziosi che si aggiungono ai tantissimi ex voto che il popolo catanese continua a offrire alla. Nella stessa data in cui fu realizzato il Busto, gli orafi di Limoges eseguirono anche i reliquiari per le membra: uno per ciascun femore, uno per ciascun braccio, uno per ciascuna gamba. I reliquiari per la mammella e per il velo furono eseguiti più tardi, nel 1628. Attraverso il vetro delle teche, che protegge ma non nasconde, durante la festa di sant’Agata si può vedere il miracoloso velo, una striscia di seta rosso cupo, lunga 4 metri e alta 50 centimetri, che le ricognizioni garantiscono ancora morbida, come se fosse stata tessuta di recente. Attraverso il reliquiario della mano destra e del piede destro si possono scorgere i tessuti del corpo della santa ancora miracolosamente intatti.

Lo scrigno

Le reliquie del corpo, che per secoli furono conservate in una cassa di legno (oggi custodita nella chiesa di Sant’Agata la Vetere), daI 1576 si trovano in uno scrigno rettangolare d’argento alto 85 centimetri, lungo un metro e 48, largo 56. Il coperchio è suddiviso in 14 riquadri che raffigurano altrettante sante che onorano Agata, la prima vergine martire della chiesa. All’interno si conservano anche due documenti storici: la bolla pontificia di Urbano Il che conferma solennemente che sant’Agata nacque a Catania e non a Palermo, come voleva un’altra tradizione, e una pergamena del 1666 che proclama sant’Agata protettrice perpetua di Messina.

La reliquia del seno

Fra tutte le città italiane di cui sant’Agata è compatrona, Gallipoli e Galatina, in Puglia, sono coinvolte in una singolare contesa che vede come protagonista una reliquia di sant’Agata, la mammella. Una leggenda diffusa in Puglia spiegherebbe con un miracolo la presenza della reliquia a Gallipoli. Si dice che l’8 agosto del 1126 sant’Agata apparve in sogno a una donna e la avverti che il suo bambino stringeva qualcosa tra le labbra. La donna si svegliò e ne ebbe conferma, ma non riuscì a convincerlo ad aprire la bocca. Tentò a lungo: poi, in preda alla disperazione, si rivolse al vescovo. Il prelato recitò una litania invocando tutti i santi, e soltanto quando pronunciò il nome di Agata il bimbo aprì la bocca. Da essa venne fuori una mammella, evidentemente quella di sant’Agata. La reliquia rimase a Gallipoli, nella basilica dedicata alla santa, dal 1126 al 1389, quando il principe Del Balzo Orsini la trasferì a Galatina, dove fece costruire la chiesa di Santa Caterina d’Alessandria d’Egitto, nella quale è ancora oggi custodita la reliquia, presso un convento di frati cappuccini. Le altre reliquie A Palermo, nella Cappella regia, sono custodite le reliquie dell’ulna e del radio di un braccio. A Messina, nel monastero del SS. Salvatore, un osso del braccio. Ad Ali, in provincia di Messina, parte di un osso del braccio. A Roma, in diverse chiese si conservano frammenti del velo. A Sant’Agata dei Goti, in provincia di Benevento, si conserva un dito. Altre piccole reliquie si trovano a Sant’Agata di Bianco, a Capua, a Capri, a Siponto, a Foggia, a Firenze, a Pistoia, a Radicofani, a Udine, a Venalzio, a Ferrara. Anche all’estero si custodiscono piccole reliquie di sant’Agata. in Spagna: a Palencia, a Oviedo e a Barcellona. In Francia: a Cambrai, Hanan, Breau Preau e Douai. In Belgio: a Bruxelles, a Thienen, a Laar; ad Anversa. E ancora, in Lussemburgo, nella Repubblica Ceca (Praga) e in Germania (Colonia).

La processione

Ogni anno il 3, il 4 e il 5 febbraio Catania offre alla sua patrona una festa così straordinaria che può essere paragonata soltanto alla Settimana santa di Siviglia o al Corpus Domini di Cuzco, in Perù. In quei tre giorni la città dimentica ogni cosa per concentrarsi sulla festa, misto di devozione e di folklore, che attira ogni anno sino a un milione di persone, tra devoti e curiosi. Il primo giorno è riservato all’offerta delle candele. Una suggestiva usanza popolare vuole che i ceri donati siano alti o pesanti quanto la persona che chiede la protezione. Alla processione per la raccolta della cera, un breve giro dalla fornace alla cattedrale, partecipano le maggiori autorità religiose, civili e militari. Due carrozze settecentesche, che un tempo appartenevano al senato che governava la città, e undici “candelore”, grossi ceri rappresentativi delle corporazioni o dei mestieri, vengono portate in corteo. Questa prima giornata di festa si conclude in serata cori un grandioso spettacolo di giochi pirotecnici in piazza Duomo. I fuochi artificiali durante la festa di sant’Agata, oltre a esprimere la grande gioia dei fedeli, assumono un significato particolare, perchè ricordano che la patrona, martirizzata sulla brace, vigila sempre sul fuoco dell’Etna e di tutti gli incendi.

Il 4 febbraio è il giorno più emozionante, perchè segna il primo incontro della città con la santa Patrona. Già dalle prime ore dell’alba le strade della città si popolano di “cittadini”. Sono devoti che indossano il tradizionale “sacco” (un camice votivo di tela bianca lungo fino alla caviglia e stretto in vita da un cordoncino), un berretto di velluto nero, guanti bianchi e sventolano un fazzoletto anch’ esso bianco stirato a fitte pieghe. Rappresenta l’abbigliamento notturno che i catanesi indossavano quando, nel lontano 1126, corsero incontro alle reliquie che Gisliberto e Goselmo riportarono da Costantinopoli. Ma l’originario camice da notte, nei secoli, si è arricchito anche del significato di veste penitenziale: secondo alcuni l’abito di tela bianca è la rivisitazione di una veste liturgica, il berretto nero ricorderebbe la cenere di cui si cospargevano il capo i penitenti e il cordoncino in vita rappresenterebbe il cilicio. Tre differenti chiavi, ognuna custodita da una persona diversa, sono necessarie per aprire il cancello di ferro che protegge le reliquie in cattedrale: una la custodisce il tesoriere, la seconda il cerimoniere, la terza il priore del capitolo) della cattedrale. Quando la terza chiave toglie l’ultima mandata al cancello della cameretta in cui è custodito il Busto, e il sacello viene aperto, il viso sorridente e sereno di sant’Agata si affaccia dalla cameretta nel crescente tripudio dei fedeli impazienti di rivederla. Luccicante di oro e di gemme preziose, il busto di sant’Agata viene issato sul fercolo d’argento rinascimentale, foderato di velluto rosso, il colore del sangue del martirio, ma anche il colore dei re. Prima di lasciare la cattedrale per la tradizionale processione lungo le vie della città, Catania dà il benvenuto alla sua patrona con una messa solenne, celebrata dall’arcivescovo. Tra i fragori degli spari a festa, il fercolo viene caricato del prezioso scrigno con le reliquie e portato in processione per la città.

Il “giro”, la processione del giorno 4, dura l’intera giornata. Il fercolo attraversa i luoghi del martirio e ripercorre le vicende della storia della “santuzza”, che si intrecciano con quella della città: il duomo, i luoghi del martirio, percorsi in fretta, senza soste, quasi a evitare alla santa il rinnovarsi del triste ricordo. Una sosta viene fatta anche alla “marina” da cui i catanesi, addolorati e inermi, videro partire le reliquie della santa per Costantinopoli. Poi una sosta alla colonna della peste, che ricorda il miracolo compiuto da sant’Agata nel 1743, quando la città fu risparmiata dall’epidemia. I “cittadini” guidano il fercolo tra la folla che si accalca lungo le strade e nelle piazze. In quattromila o cinquemila trainano la pesante macchina. Tutti rigorosamente indossano il sacco votivo e a piccoli passi tra la folla trascinano il fercolo che, vuoto, pesa 17 quintali, ma, appesantito di Scrigno, Busto e carico di cera, può pesare fino a 30 quintali. A ritmo cadenzato gridano: “cittadini, viva sant’Agata”, un’osanna che significa anche: “sant’Agata è viva” in mezzo alla folla. Il “giro” si conclude a notte fonda quando il fercolo ritorna in cattedrale.

SuI fercolo del 5 febbraio, i garofani rossi del giorno precedente (simboleggianti il martirio), vengono sostituiti da quelli bianchi (che rappresentano la purezza). Nella tarda mattinata, in cattedrale viene celebrato il pontificale. AI tramonto ha inizio la seconda parte della processione che si snoda per le vie del centro di Catania, attraversando anche il “Borgo”, il quartiere che accolse i profughi da Misterbianco dopo l’eruzione del 1669. Il momento più atteso è il passaggio per la via di San Giuliano, che per la pendenza è il punto più pericoloso di tutta la processione. Esso rappresenta una prova di coraggio per i “cittadini”, ma è interpretato anche – a seconda di come viene superato l’ “ostacolo” – come un segno celeste di buono o cattivo auspicio per l’intero anno. A notte fonda i fuochi artificiali segnano la chiusura dei festeggiamenti. Quando Catania riconsegna alla cameretta in cattedrale il reliquiario e lo scrigno, i sacchi bianchi non profumano più di bucato, i volti sono segnati dalla stanchezza, i muscoli fanno male, la voce è ridotta a un filo sottile. Ma la soddisfazione di aver portato in trionfo il corpo di sant’Agata per le vie della sua Catania riempie tutti di gioia e ripaga di quelle fatiche. Bisognerà aspettare diversi mesi (la festa del 17 agosto), o un altro anno (la festa del 5 febbraio), per poter vedere sorridere ancora una volta il viso buono della santa che fu martire per la salvezza della fede e di Catania.

Le candelore

La festa di sant’Agata è inscindibile dalla tradizionale sfilata delle “candelore”, enormi ceri rivestiti con decorazioni artigianali, puttini in legno dorato, santi e scene del martirio, fiori e bandiere. Le candelore precedono il fercolo in processione, perchè un tempo, quando mancava l’illuminazione elettrica, avevano la funzione di illuminare il passo ai partecipanti alla processione. Sono portate a spalla da un numero di portatori che, a seconda del peso del cero, può variare da 4 a 12 uomini. I maestri orafi del Trecento avevano realizzato il Busto di sant’Agata, un capolavoro d’arte raffinato e prezioso. Ma il popolo, da sempre vicino alla patrona, ha voluto essere presente nella festa con creazioni proprie, opere di fattura artigianale che rappresentassero, inoltre, associazioni di varie categorie di lavoratori.

Ognuna delle 11 candelore possiede una precisa identità. Sulle spalle dei portatori, essa si anima e vive la propria unicità, che si compone di diversi elementi: la forma che caratterizza il cero, l’andatura e il tipo di ondeggiamento che gli viene dato, la scelta di una marcia come sottofondo musicale.

Le candelore sfilano sempre nello stesso ordine. Ad aprire la processione è il piccolo cero di monsignor Ventimiglia. Il primo grande cero rappresenta gli abitanti del quartiere di San Giuseppe La Rena e fu realizzato all’ inizio dell’Ottocento. E’ seguito da quello dei giardinieri e dei fiorai, in stile gotico-veneziano. Il terzo in ordine di uscita è quello dei pescivendoli, in stile tardo-barocco con fregi santi e piccoli pesci. Il suo passo inconfondibile ha fatto guadagnare alla candelora il soprannome di “bersagliera”. Il cero che segue è quello dei fruttivendoli, che invece ha passo elegante ed è dunque chiamato la “signorina”. Quello dei macellai è una torre a quattro ordini. La candelora dei pastai è un semplice candeliere settecentesco senza scenografie. La candelora dei pizzicagnoli e dei bettolieri è in stile liberty, quella dei panettieri è la più pesante di tutte, ornata con grandi angeli, e per la sua cadenza è chiamata la “mamma”. Chiude la processione la candelora del circolo cittadino di sant’Agata che fu introdotta dal cardinale Dusmet. In passato le candelore sono state anche più numerose: esistevano quelle dei calzolai, dei confettieri, dei muratori, fino a raggiungere in alcuni periodi il numero di 28.

I Patronati

La città

In Italia sant’Agata è patrona di 44 comuni, dei quali 14 portano il nome della santa. Il titolo più antico di patrona lo detiene Catania. Qui la devozione è profondamente radicata e il nome di Agata, invocato a gran voce, implorato, glorificato, riecheggia nella storia della città. La “A”, lettera iniziale di questo popolarissimo nome, sormonta il monumento principale della città, l’elefante Eliodoro, simbolo di Catania. Un’altra “A” si staglia nella pietra sulla facciata del Palazzo municipale, una campeggia al centro dello stemma civico, un’altra al centro del gonfalone dell’Università. All’estero sant’Agata è compatrona della Repubblica di San Marino. Questa devozione ha un’origine antica: secondo la tradizione proprio il 5 febbraio, giorno del martirio della santa catanese, uno scalpellino dalmata di nome Marino, sfuggito con altri cristiani alle persecuzioni di Diocleziano (nel IV secolo), fondò il piccolo Stato sorto attorno al monte Titano. Ma la santa catanese è compatrona anche di Rabat, a Malta, dove una tradizione locale vuole che Agata si fosse rifugiata durante le persecuzioni di Decio. Gli abitanti di Rabat hanno voluto individuare nelle “catacombe di sant’Agata” il punto preciso in cui si nascose per alcuni giorni. Anche qui la devozione affonda le sue radici nella storia: il 20 luglio 1551, durante il primo assedio di Malta, una statua di sant’Agata fu collocata sulle mura della città affinchè la proteggesse. La tradizione vuole che mille abitanti dell’isola, con l’aiuto celeste della santa, siano riusciti a contrastare e a bloccare l’assedio di diecimila turchi. In Spagna Agata è la patrona di Villalba del Alcor, in Andalusia, dove esiste un simulacro rivestito di preziosi broccati. Sant’Agata è venerata anche a Jena, in provincia di Valencia, mentre a Barcellona le è stata dedicata la cappella del Palazzo reale, dove i re cattolici ricevettero Cristoforo Colombo di ritorno dalla scoperta dell’America. Nella provincia di Segovia, sempre in Spagna, ogni anno, il 5 febbraio viene eletta una sindachessa e quel giorno nella cittadina lo scettro del potere è affidato soltanto alle donne. In Portogallo sant’Agata (in portoghese Agueda) è patrona di una cittadina che porta il suo nome, nella provincia di Coimbra. In Germania è patrona di Aschaffemburg. In Francia molte sono le località sotto il patronato di Agata: a Le Fournet, una città immersa nei boschi della Normandia, nello stemma cittadino, in onore della santa, sono raffigurate la palma, simbolo del martirio, e la tenaglia, strumento con cui venne torturata. In Grecia molte località portano il nome di Agata e la santa si invoca per scongiurare i pericoli delle tempeste. In Argentina, dove è la protettrice dei vigili del fuoco, le è stata dedicata la cattedrale di Buenos Aires. In diversi altri punti del pianeta ci sono luoghi di venerazione agatini, persino in America, dove esistono una Sainte Agathe des Monts nel Quèbec e una Sainte Agathe en Monitoba presso Winnipeg, in Canada. Ma anche in India, a Viayawala, c’è un santuario a lei dedicato. Stabilire quanti sono in tutto il mondo i luoghi di culto e i devoti di sant’Agata è un’impresa forse impossibile.

I fonditori di campane

Un tempo sant’Agata era considerata protettrice dei fonditori di campane e degli ottonai. Questa tradizione nacque, secondo alcuni, perchè, quando scoppiavano calamità, era consuetudine suonare le campane. Quindi la santa, solitamente invocata contro le calamità, fu nominata protettrice di coloro che realizzavano gli strumenti utilizzati per dare l’allarme. Ma, secondo altri, la protezione era invocata dagli stessi fonditori affinchè la vergine catanese proteggesse la fusione e la perfetta riuscita delle campane.

I tessitori

La venerazione di sant’Agata come patrona dei tessitori nasce da una leggenda che ha trasformato Agata in una sorta di Penelope cristiana. Vuole la leggenda che Agata, per allontanare le nozze con un uomo molesto e odioso, sicuramente lo stesso Quinziano, lo avrebbe convinto ad aspettare che fosse terminata una tela che ella stava tessendo. Ma, come faceva la moglie di Ulisse con i Proci, Agata di giorno tesseva e di notte scuciva, cosicchè la tela non fu mai ultimata.

Contro gli incendi

La devozione per sant’Agata protettrice contro i pericoli del fuoco si diffuse durante il Medioevo. Si disse a quell’epoca che, se la santa proteggeva contro il fuoco di un vulcano, a maggior ragione poteva difendere contro tutti gli incendi. La prerogativa di allontanare il fuoco ha diffuso il culto di sant’Agata oltre i confini nazionali. Per esempio a Lione, in Francia, i contadini il 5 febbraio fanno benedire un pane che scagliano contro le fiamme in caso di incendio. Sempre durante il Medioevo si diffuse la credenza che sant’Agata proteggesse anche contro qualsiasi altra calamità naturale: inondazioni, bufere, epidemie e carestie.

Contro le malattie femminili

Sempre più donne si rivolgono oggi a sant’Agata, che fu martirizzata con l’amputazione delle mammelle, per scongiurare le malattie e i tumori al seno e, più in generale, contro tutte le malattie femminili. E numerosi sono i casi di guarigioni miracolose operate per intercessione di sant’Agata su casi diagnosticati inguaribili. Sant’Agata inoltre protegge le puerpere che hanno male al seno e le gestanti che a lei si rivolgono per ottenere un parto felice e la grazia di allattare personalmente i propri figli.

I Luoghi del Culto

Sant’Agata al Carcere

Salendo per via Cappuccini fino a trovarci in una piccola e graziosa piazzetta dove su un imponente frammento delle mura di Carlo V, sorge la Chiesa che è stata costruita davanti al carcere dove la santa patrona della città, S. Agata fu rinchiusa durante il processo, portata dopo il martirio, guarita dall’apostolo Pietro e dove esalò l’ultimo respiro il 5 febbraio 251 d.C.

è possibile che esso fosse interrato ed annesso alle costruzioni nei pressi di un edificio amministrativo della città romana, là dove si presume si trovasse la residenza rappresentativa del console Quinziano suo persecutore.

Il portale di questa chiesa barocca è medievale( forse di epoca sveva del 1241) ed apparteneva alla facciata dell’antico Duomo normanno, salvato dalle macerie del 1693; fu rimosso da Gian Battista Vaccarini, che soprintendeva ai lavori per il prospetto del nuovo tempio da lui disegnato, e collocato fino al 1750 nel Palazzo Senatorio.

Quel che rimane dell’edificio è un vano rettangolare (5,90m x 3,65m), oggi a destra della navata della chiesa, dalle spesse mura (2 m ca.) giustificabili per la sua funzione detentiva. Negli anni ’60 è stato scoperto un ambiente attiguo al carcere, ad un livello più basso rispetto l’attuale piano del calpestio, formato da tre absidi, quella centrale a pianta rettangolare preceduta da un piccolo transetto, che finisce appoggiato alle mura di Carlo V.

C’è chi parla di carcere inferior, riservato a coloro che erano destinati alla pena capitale, o di una basilica cristiana o pagana ma in genere vengono indicati come i bagni dei gladiatori. Questi tre ambienti costruiti con poderosi blocchi lavici e coronati da archi in mattoni non si sa se appartenessero a bagni privati o non fossero piuttosto parti costruttive di un palazzo, sede della più alta carica rappresentante di Roma, che è tradizione ubicare nella parte più alta del sottostante anfiteatro,collocato sul fianco della collina di Montevergine.

All’esterno del carcere, a sinistra dell’attuale porta di accesso, un concio di pietra lavica conserva, secondo la tradizione, le orme impresse di S. Agata.

Il Santo Carcere fu ampliato fino ad incastrare le mura cinquecentesche che corrono in quel punto e in cui fu aperta una finestrella alla quale esternamente è stata collocata una lapide che ricorda Sant’ Agata e l’apostolo Pietro che la sanò ed invita il viandante a sostare e onorare il luogo santo. Un bassorilievo a mezze figure raffigurante i due personaggi è posto al di sopra della finestra.

Questi luoghi in occasione dei festeggiamenti della Santa (dal 3 al 5 febbraio) prendono nuova vita: la salita dei Cappuccini si ammanta di bianco per il colore delle vesti dei devoti; il carcere è quasi inaccessibile per la moltitudine di gente che va a visitare questi luoghi.

Sant’Agata la Vetere

Salendo per via Garofalo e giriamo a sinistra per via Santa Maddalena, dove, come sfondo di una piccola piazzetta, ritroviamo una delle chiese più antiche: S. Agata la Vetere.

Dopo l’editto di Costantino (313 d. C.) ad opera di San Severino vescovo dei primi anni della pace, fu costruita la chiesa, iniziata nel 380 e completata nel 436 che venne a sostituire la modesta edicola fatta erigere, quasi di nascosto, sulle rovine del palazzo pretorio dal santo vescovo Everio nel 264.

Il vescovo stabilì la sua cattedra e vi trasferì le reliquie ed il sepolcro che le racchiudeva possibilmente dopo il 436 d. C. Era costume dei primi cristiani seppellire i martiri velocemente vicino ai luoghi del martirio, se si trovavano fuori delle mura, per evitare la profanazione.

Qui, nella parte absidale, è conservato un antico sarcofago di marmo bianco dove, secondo la tradizione, sarebbe stato sepolto il corpo della giovane martire (la chiesa, del resto, si trova a Sud di un’area utilizzata come zona cimiteriale dall’età ellenistica fino all’era cristiana).

L’antico sarcofago, di età pagana e di pregevole fattura, venne scalpellato nelle parti raffiguranti scene non compatibili con la fede cristiana, come quelle della “Caccia al cinghiale Calidonio” ed della “Centauromachia”.

Nel lato rivolto verso il visitatore è ben visibile la raffigurazione pagana di due grifoni laterali (simbolo della forza e del coraggio) con al centro un candelabro (l’anima ardente), lasciati come simboli di virtù attribuibili anche alla santa.

Interessanti sono gli ambienti sotterranei dove si trova una cripta dove sono scavati lungo le pareti numerosi loculi ed al centro è posto un altare antico con sopra un affresco ben conservato che raffigura i benefici spirituali del sacrificio eucaristico per le anime dei defunti.

Cattedrale di Sant’Agata

Ubicazione: piazza Duomo

Orari di apertura: aperta tutte le mattine dalle 8 alle 12, i pomeriggi dalle 15 alle 18

Opere notevoli

Battesimo di Cristo, affresco del XVIII secolo di Giovanni Tuccari (navata destra, parete di fondo); Il martirio di Santa Febronia (1733), dipinto su teladi Guglielmo Borremans (navata destra, I altare); Santa Rosalia (1733), dipinto su teladi Guglielmo Borremans (navata destra, II altare); Sant’Antonio da Padova (1733), dipinto su teladi Guglielmo Borremans (navata destra, III altare); Trionfo di Sant’Agata e santi martiri e vescovi catanesi (1628), affresco di Giambattista Corradini (abside centrale);San Pietro che consacra San Berillo, dipinto su tela del primo Ottocento di Antonio Subba (navata sinistra, VI altare); Martirio di Sant’Agata, dipinto su tela della fine del XVI secolo di Filippo Paladini (navata sinistra, V altare);Sant’Antonio abate (1733), dipinto su tela di Guglielmo Borremans (navata sinistra, IV altare); I Santi Gaetano e Filippo Neri, dipinto su tela del XVIII secolo di Giovanni Tuccari (navata sinistra, III altare); San Francesco di Paola, dipinto su tela del XVIII secolo di Giuseppe Guarnaccia (navata sinistra, IV altare); San Giorgio (1624), dipinto su tela di Girolamo La Manna.

Opere scultoree notevoli: Monumento sepolcrale di Vincenzo Bellini (1876) di Giambattista Tassara (III pilastro a destra); portale marmoreo del XVI secolo con le scene dellavita della Madonna di Giambattista Mazzola (ingresso della cappella della Madonna, navata destra); sarcofago della regina Costanza d’Aragona del XIV secolo (cappella della Madonna);sarcofago di epoca romana (cappella della Madonna); Monumento al vicerè Ferdinando de Acuna (1495) di Antonello Freri (cappella di Sant’Agata);Monumento della famiglia Gravina Cruyllas del XVIII secolo (cappella del Sacramento); portale marmoreo del XVI secolo con le scene dellapassione e resurrezione di Cristo e la lunetta con la Pietà di Domenico Mazzola (ingresso della cappella del Crocifisso).

Oreficeria

Busto reliquiario di Sant’Agata di Giovanni di Bartolo (1373, sacello della cappella di Sant’Agata); Scrigno delle reliquie di Sant’Agata, fine XV secolo/XVI secolo con rifacimenti del XVIII (sacello della cappella di Sant’Agata). Arredi e altre macchine notevoli: coro ligneo della fine del XVI secolo di Scipione di Guido; organo di manifattura francese, Jeanpierre Jaquot di Rambervilliers (1877, controfacciata); armadio da sagrestia del XVIII secolo (sagrestia); vetrata di Duilio Cambellotti (1959, abside).

Cenni Storici

La Cattedrale di Catania fu eretta per volere dei sovrani normanni tra il 1092 e il 1094. E’ dibattuta la questione relativa a una precedente cattedrale: gli storici locali ottocenteschi pensavano potesse corrispondere alla chiesa di Sant’Agata la Vetere mentre le ricerche più attuali protendono per l’esistenza di una cattedrale nell’alto medioevo già sull’area attuale. E’ certo che con i Normanni l’area della Platea Magna assume un’importanza focale nella città: il centro della Catania delle origini gravitava difatti in una zona più a nord – ovest, nei pressi della collina di Montevergine ove oggi sorge il complesso monastico dei Benedettini; in epoca alto medievale, con i Bizantini, l’area doveva ancora essere periferica così come sotto il dominio mussulmano, anche se si incomincia a registrare nel quartiere la presenza di gruppi residenziali. Al termine dell’XI secolo, infine, il quartiere assunse un ruolo strategico grazie alla presenza nel suo cuore dell’ecclesia munita normanna, ovvero di una chiesa fortezza che doveva rappresentare sia il potere spirituale che quello temporale, strettamente connesso in epoca normanna. La chiesa, con la sua civita contenuta entro le mura del complesso arcivescovile, dominava la città per chi veniva dal mare e difendeva certamente l’incolumità dei catanesi, usciti da decenni di soggezione ai Mussulmani, signori del Mar Mediterraneo. Singolare l’edificazione, da parte delle successive dominazioni, di baluardi della medesima imponenza accanto alla grande cattedrale: al principio del Duecento Federico II di Svevia eresse un altro castello dominante la fascia costiera, il Castello Ursino, e nei primi decenni del secolo successivo gli Aragonesi costruirono la Loggia civica proprio accanto alla cattedrale (vedi scheda Palazzo degli Elefanti). L’edificio subì gravi danni con il sisma del 1118 quando cadde l’alto campanile che sorgeva lungo il prospetto nord; ma con il terremoto del 1693 i crolli furono così pesanti da indurre alla ricostruzione pressochè totale dell’edificio. Contribuì a un rifacimento così radicale anche il gusto del tempo che imponeva di erigere un edificio di tale importanza seguendo schemi ben diversi da quelli dell’architettura medievale. Nel 1729 il vescovo Galletti chiama il più attivo degli architetti della ricostruzione, il palermitano Giovan Battista Vaccarini che riesce a far riaprire al culto la cattedrale nel 1761. In quegli anni intervenne anche Girolamo Palazzotto, un altro importante architetto della ricostruzione al quale si deve in parte l’idea dell’impianto dell’edificio e la sua decorazione interna. Ma i lavori non sono ancora finiti e così ritroviamo nel cantiere della chiesa l’architetto Carmelo Battaglia Santangelo che vi lavora sino al 1804. Tra il 1867 e il ’69 si eresse il campanile su progetto di Carmelo Sciuto Patti. Altri lavori interessarono l’interno della cattedrale e tra il XIX e il XX secolo essa continuò a subire delle profonde trasformazioni, prima fra tutte la sostituzione dell’altare maggiore in epoca recente.

Descrizione

Una grande balaustrata, opera di Carmelo Battaglia, decorata con statue ottocentesche di santi, circonda il complesso della cattedrale. La facciata, eseguita su progetto di Vaccarini, domina tutta la piazza e fa da sfondo a un ipotetico spazio scenico che al suo opposto, seguendo l’asse di via Garibaldi (antica via San Filippo e poi Ferdinandea), si chiude con la Porta Garibaldi (vedi scheda Piazza Crocifisso Majorana e Piazza Palestro). Essa è tripartita in tre ordini; la decorano tre statue raffiguranti Sant’Agata, San Berillo eSant’Euplio. La chiesa è a croce latina con tre navate suddivise da grandi pilastri. Il transetto e la zona absidale conservano le testimonianze architettoniche più antiche, normanne e cinquecentesche: lungo il transetto sul lato destro si apre la cappella della Madonna che conserva ancora il portale cinquecentesco marmoreo decorato con le scene dellavita della Madonna di Giambattista Mazzola. Sul lato sinistro si trova la cappella del Crocifisso introdotta da un altro portale cinquecentesco in marmo con lescene dellapassione e resurrezione di Cristo sormontate dalla lunetta con laPietà di Domenico Mazzola. Le absidi conservano ancora ben visibili la struttura normanna degli archi ogivali: dentro di esse sono inserite, a destra, la cappella di Sant’Agata ove è il sacello che custodisce le reliquie della patrona di Catania con il busto trecentesco del senese Giovani Di Bartolo e la cassa delle reliquie. L’abside maggiore, con il suo altare più volte rimaneggiato, venne affrescata nel principio del Seicento da Giambattista Corradini con le scene del Trionfo di Sant’Agata e santi martiri e vescovi catanesi; ancora nel 1959 Duilio Cambellotti disegnava la vetrata al centro dell’abside. Nell’abside sinistra si trova la cappella del Sacramento. Nella sagrestia si trova un affresco di Platania raffigurante l’eruzione del 1669. Nell’insieme l’interno, sia per le sue strutture architettoniche che per l’apparato decorativo scultoreo e pittorico, esprime la sovrapposizione di epoche e stili differenti che non sempre si armonizzano tra loro: apprezzare ogni elemento nella sua completezza è la migliore lettura della cattedrale di Catania. Ancora un’annotazione: entrando nel cortile del palazzo arcivescovile aperto sulla via Vittorio Emanuele, è possibile ammirare la struttura muraria delle originarie absidi normanne.

La fornace

Sul luogo dove sant’Agata subì il martirio del fuoco sorge una chiesetta a unica navata. Tuttora è visibile, nella cappella destra, attraverso un oblò, la fornace che al tempo delle persecuzioni era utilizzata per le torture e che fu il luogo dove si consumò il martirio di sant’Agata. La chiesa della fornace, che i catanesi chiamano anche “Carcara” e che è dedicata anche a san Biagio, subito dopo la caduta dell’impero romano era una semplice cappella.

Nel 1098 fu leggermente ampliata, ma non si poterono superare le attuali dimensioni, perchè lo impediva il bastione del carcere romano che la affianca.

Fu rimodernata nel 1589 e miracolosamente preservata dall’eruzione del 1669. Da questo luogo, prezioso in quanto documento storico e di culto, il 3 febbraio di ogni anno si diparte la solenne processione per l’offerta della cera alla santa patrona.

La chiesa di Sant’Agata a Cremona

A Cremona, nella basilica collegiata di Sant’Agata, è venerata la “tavola dell’angelo”.

Si trova al Nord perchè, si disse, un prete di origine cremonese, durante l’invasione dei Longobardi, approfittò del trambusto generale e la portò con sè. Da quel momento, la tavoletta divenne oggetto di grande venerazione, sia per il popolo cremonese, sia per vescovi e cardinali. Il 5 febbraio di ogni anno, e la domenica successiva, si svolgono le celebrazioni in onore della santa. La reliquia è custodita all’interno di un’originale teca, una tavola lignea alta 112 centimetri e larga 69, dipinta su entrambi i lati da un anonimo pittore sul finire del XIII secolo. Sulla prima facciata sono raffigurate scene della vita e del martirio di sant’Agata, sull’altra una Madonna con il Bambino sormontata da una scena della Pentecoste.

La “tavola dell’angelo”, protetta da un elegante cancelletto settecentesco, in tanti secoli non è mai stata aperta e, come una conchiglia, continua a nascondere la sua preziosa perla. Nel 1575 san Carlo Borromeo, giunto a Cremona col preciso intento di accertarsi del contenuto del reliquiario sigillato, non osò aprirlo. Davanti a tanta meraviglia si inginocchiò in profonda venerazione.

Soltanto a metà degli anni Settanta, durante i lavori di restauro, fu fatta una radiografia della “tavola”. Si accertò finalmente che, all’interno, si trova un corpo estraneo, ma nessuno ancora oggi ha voluto violare il mistero che nasconde quella preziosa reliquia.